Strappiamo tutti i chiodi che ci hanno fatto male
e ci lasciamo andare
Era da tempo che aspettavo questo momento. Sono tornati gli ZiDima. E anche questa volta la loro musica è una scossa che scuote la terra, le ossa, l’aria. Buona Sopravvivenza ha suonato a lungo nei cuori di molti, mostrando un’intimità che pochi hanno il coraggio di affrontare e esprimere. È stato un disco personale, dove ogni canzone era un morso nella carne, un tentativo disperato di sopravvivere in un ambiente che non si riconosce più. Solo agli alieni non è mai capitato.
Dopo cinque anni la band milanese sforna un album altrettanto impressionante. Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare è un nuovo capitolo. Le sonorità si sono fatte più aggressive, così come la voce che in diverse occasioni non si tira indietro e urla con tutta se stessa. Vale, la canzone che apre le danze, esplode senza preavviso. Un po’ come la vita.
Da un primo ascolto si capisce che qualcosa è cambiato. Non solo dal lato umano, ma anche sotto l’aspetto umano. Gli ZiDima sono cresciuti e con loro anche la musica, la necessità di fare musica. E insieme anche i rapporti. Questo disco è fatto di persone e delle loro vite, dei loro episodi quotidiani, nella calma e nella guerra. Questo disco è fatto di personaggi comuni, di eroi sconosciuti che in qualche modo hanno ispirato qualche verso. E camminano per le strade ignari di aver cambiato la vita a qualcuno, nel loro piccolo.
Aveva ragione Chiara
ci si annulla sempre per compiacere qualcun altro
lunedì merda, martedì pioggia, mercoledì morte
poi riprendiamo a corteggiare un fallimento
Manuel Cristiano Rastaldi canta e scrive i testi. Mi ha raccontato di questo nuovo disco che si è fatto largo in un periodo strano della vita, dove le certezze sono venute a mancare sotto diversi punti di vista. E forse è proprio lì che si scrivono nuove parole, che prendono forma nuove immagini e si ascoltano quelle storie che sono in grado di ispirarne di altre. Come è successo per questo album.
Il 10 ottobre è uscito il vostro nuovo disco, dal titolo Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare. Esce in un periodo storico molto difficile, incerto. Cosa vi ha dato la forza di scrivere e pubblicare questo album? Il periodo è davvero critico, ma l’emergenza Covid alla fine non credo abbia influito così tanto sull’uscita del nostro disco. Abbiamo iniziato le registrazioni a luglio 2019 al Trai Studio di Inzago (MI) e poi ci siamo presi tutto il tempo necessario (che per noi vuol dire sempre almeno 6 mesi) per curare nei dettagli il vestito delle nuove canzoni, dalle possibili collaborazioni al mixaggio, dal mastering alla ricerca delle illustrazioni per la copertina fino alla ricerca delle etichette per la stampa in vinile. In pratica durante il lockdown eravamo ancora concentrati su tutti questi aspetti. Se pensi a tutte le band che a febbraio/marzo avevano un disco fuori con live programmati a noi è andata decisamente meglio. Certo qualche momento di sconforto e un po’ di amarezza c’è stata, ma alla fine si è trattato solo di posticipare di qualche mese l’uscita e la data di presentazione dal vivo. Tra l’altro abbiamo sfruttato il periodo estivo anche per pensare e realizzare un video. Insomma, il disco è uscito quando tutto era davvero pronto, indipendentemente da questa grave epidemia che temo avrà ancora ulteriori effetti negativi. Su cosa ci abbia dato la forza di scrivere un nuovo disco il discorso è invece più lungo. Il precedente, Buona Sopravvivenza, è datato 2015, e per 2 anni l’abbiamo portato in giro parecchio, facendo più di 40 concerti. Che è una cosa assolutamente divertente e gratificante, soprattutto se hai 40 e più anni, ma che alla fine un po’ ti consuma, soprattutto sei hai 40 anni e più anni. O almeno io mi sono sentito così. Ricordo che nella primavera del 2017 siamo andato a Torino per festeggiare il compleanno dei Dischi del Minollo, una delle etichette che ci aveva aiutato con Buona Sopravvivenza, e io quella sera avevo confidato a quasi tutti i presenti che quel concerto sarebbe stato probabilmente il mio ultimo live con ZiDima. Non riuscivamo più a vederci e si provava pochissimo, in una sala prove a pagamento in cui finivamo il sabato o la domenica mattina, per diversi motivi personali e anche perché il centro sociale in cui abbiamo allestito la nostra sala prove era sotto sgombero. Un periodo di negatività e passività che coinvolgeva anche altri aspetti della mia vita, a partire dall’ambiente di lavoro (che poi per fortuna ho cambiato). Però ero assolutamente contento e soddisfatto della mia avventura con ZiDima. Buona Sopravvivenza era il disco che volevo fare e che mi rappresentava completamente, l’avevamo suonato tanto in giro e sempre con una passione devastante, mi sembrava una chiusura perfetta di una fase davvero emozionante della mia vita. Ho questa immagine, di noi 4 che riusciamo finalmente a vederci una sera per parlare del “futuro del gruppo” e ci diamo appuntamento davanti a Macao. Io arrivo all’appuntamento tranquillissimo, consapevole che non ci sarebbe stato molto da dire, bisognava solo trovare un modo elegante per salutarsi. E non ero neanche così demoralizzato. La fine della band in passato sarebbe stata una cosa devastante per me, ma in quel periodo me ne ero fatto una ragione. In pratica io sono pronto a dir loro “Dai, è stato bello, abbiamo fatto il massimo di quello che abbiamo potuto fare, però capisco che così non si può pensare di andare avanti quindi se vogliamo mollare va bene, nessun dramma”. E invece a sorpresa loro non avevano alcuna intenzione di smettere. Tutt’altro. Franq si era detto pronto a registrare le sue parti di batteria da casa, una volta che gli avessimo mandato le registrazioni delle prove. E così è stato. Nelle settimane successive noi ci trovavamo a ranghi ridotti in sala prove, lui nel suo box si ascoltava le prove e registrava le parti di batteria. Forse il nuovo disco è nato lì, quella sera davanti a Macao. Anche se poi di quelle prime bozze di canzoni io non volevo tenere quasi nulla, perché non riuscivo a scrivere nemmeno un testo decente. Invece anche qui hanno avuto ragione loro e la loro tenacia, perché quelli erano già i germogli delle canzoni di questo nuovo disco. Comunque l’episodio di Torino l’ho ricordato a Cosimo e Franq questa estate nel momento in cui abbiamo avuto in mano i vinili del nuovo disco. Eravamo tutti ancora un po’ stupiti ed emozionati. Di averlo fatto, davvero, un altro album.
Sette storie, sette personaggi, più uno. Cosa hanno rappresentato per voi questi personaggi e le loro vicende? La decisione di raccontare queste storie e soprattutto di nominare le canzoni con i nomi dei personaggi è stata casuale e non facile, nel senso che mi sono dovuto battere ferocemente ed arrivare anche a qualche compromesso con il resto della band. In pratica quando abbiamo ripreso a provare con regolarità, eravamo già tornati nella nostra sala prove, all’interno del Foa Boccaccio di Monza. Dico sempre che il Boccaccio è un po’ il nostro luogo del cuore, tanto che sulla porta della sala anni fa ho scritto “tana ZiDima”. Avevamo questi pezzi sopravvissuti a quei mesi critici, su cui stavamo lavorando seriamente, alcuni avevano i testi già ben definiti, altri assolutamente provvisori, con parecchi buchi. Come spesso capita quando proviamo in Boccaccio, qualcuno dei ragazzi del centro sociale viene a sentirci, o passa dentro 5 minuti anche solo per salutare. Tra i visitatori più assidui c’è Bruz. Visto che oltre ai testi, anche i titoli erano provvisori, una sera gli chiedo: ”Bruz dimmi un titolo per questa canzone, non so un nome di persona, con una storia dietro, ma che sia una storia vera Bruz!”. E lui mi racconta di Zita, questa ragazza che aveva incontrato durante un festival in Boccaccio. Da lì mi si è accesa la lampadina: intitolare le canzoni con i nomi dei loro protagonisti, come se fossero dei ritratti. Paolo e Rocco c’erano già (Paolo e Rocco per me ci sono e ci saranno sempre), così come Roby (che aveva come titolo “Il popolo ha fame”, il testo l’ho scritto durante una coda in tangenziale dopo che Roby mi aveva mandato il giro di chitarra nato mentre provava il nuovo pedale per i loop). “Arrivederci.amore.ciao” è diventata Vale, la combattiva più bella che abbia mai conosciuto, “Una crepa” è diventata Anna K. visto che parte del testo è tratta da un pezzo dei The Death of Anna Karina, Chiara aveva già la sua canzone così come Emme (più che una canzone però “Emme” è un’invettiva, uno sfogo di bile), e appunto grazie a Bruz un pezzo che si chiamava qualcosa come “Solo nero” è diventato Zita. In pratica noi stavamo già raccontando queste storie, senza averlo deciso a tavolino. E Bruz ci ha semplicemente aperto gli occhi e indicato la strada. Comunque Zita è stato l’unico testo che ho dovuto scrivere da capo dopo che siamo entrati in quest’ottica. Sono storie di persone vere, con cui in qualche modo siamo entrati in contatto, direttamente o indirettamente, che mi avevano colpito per le loro scelte, spesso estreme, coraggiose, liberatorie.
La “crepa in fondo al mare” che citate è naturale o si è formata a seguito di qualche evento particolare? Dopo aver cambiato i titoli delle canzoni (a poche settimane dall’inizio delle registrazioni), non ti dico come gli altri zidimi abbiamo reagito alla mia proposta di intitolare il disco Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare. Era ovviamente troppo lungo ed eccessivo per tutti. Ma alla fine ce l’ho fatta. Ho portato diversi esempi di dischi bellissimi che avevano titoli lunghissimi (penso a Stormo e Marnero ad esempio), e soprattutto mi son dovuto arrendere quasi subito nella battaglia per la scelta del primo pezzo della tracklist. Comunque: la crepa in fondo al mare così come il resto della frase del titolo sono tratti dal testo di Anna K., uno dei primissimi pezzi venuti alla luce. Mi piaceva l’immagine di questo abbraccio sfacciato e manifesto da contrapporre a ogni avversità (nel 2010 ero rimasto colpito da un’illustrazione che raffigurava i ragazzi abbracciati sul tetto di un centro sociale milanese – la Bottiglieria Occupata – durante uno sgombero, probabilmente la suggestione arriva da lì). E mi piaceva che questa contrapposizione sottolineasse anche una distanza. Quindi l’abbraccio è collocato nella profondità del mare, anzi in una crepa in fondo al mare, in modo che rappresenti anche una minaccia. Mi sembrava una descrizione perfetta del momento che come gruppo stavamo passando. Distanti, ma sempre ostinati e minacciosi. Poi crepe, squarci e segni simili li ho citati spesso anche nei dischi precedenti, forse pure troppo.
Avete dedicato l’album a “chi continua a sentirsi vivo e pericoloso”. Oggi si riesce ancora essere pericolosi in modo ostinato e libero? Personalmente poche altre cose mi hanno fatto sentire “vivo e pericoloso” come suonare per 18 anni con questa band. Poi ognuno ha il proprio concetto di pericolosità. Mi sembra però abbastanza evidente che oggi si tenda a definire pericolosi persone e atteggiamenti che semplicemente non sono in linea con questa imperante idea di omologazione, spietata e bugiarda e terribilmente noiosa. Ho sempre trovato più stimolante confrontarmi con chi ha una visione della vita slegata da troppi vincoli e obblighi e doveri, piuttosto che con quelli per cui l’unico obiettivo è il compromesso e il quieto vivere. Vivi, ostinati, bellissimi e pericolosi sono ad esempio i ragazzi e le ragazze del centro sociale che frequentiamo e che oggi si stanno battendo contro una nuova minaccia di sgombero, vive e pericolose sono certe canzoni che quando le senti tremi e ti vorresti strappare la pelle per vedere il segno che ti hanno lasciato. Quindi la risposta è sì, si riesce ancora a essere pericolosi in modo ostinato e libero.
Arrivederci amore ciao
ognuno ha la sua tragedia e la nasconde sotto un cuscino
Citando un verso di una vostra canzone, di cosa ha fame il popolo? Con “Il popolo ha fame” cito la celebre frase attribuita alla regina Maria Antonietta (“Se il popolo ha fame, che mangi le brioches!”, che poi è un falso storico, ho approfondito) proprio perché volevo riprendere ed enfatizzare un riferimento a un momento storico in cui le rivoluzioni si facevano per davvero e non si annunciavano sui social. È una frase che avevamo anche ipotizzato come titolo del disco, legandola però a tutt’altro discorso, ovvero a questi sette personaggi affamati di vita. Ma visto l’utilizzo che si è fatto in questi anni della parola popolo, non volevamo che nemmeno per un secondo si potesse percepire come un eventuale riferimento al populismo attuale. Quindi e per fortuna abbiamo cambiato idea, anche perché il titolo che poi abbiamo scelto è molto più rappresentativo oltre che molto molto più bello.
Personalmente, qual è la canzone del disco a cui tieni di più? Sono due e per motivi diversi, anche se in effetti sono i due brani meno irruenti, più “malinconici”: Roby perché c’è dietro una storia di 18 anni, fatta anche di silenzi, incomprensioni, differenze di vedute sfociate pure in qualche calcio sulle pareti della sala prove, ma anche indimenticabili pacificazioni improvvise sul palco e soprattutto quintali di complicità. L’altra è Paolo e Rocco perché coinvolge due persone a me molto care delle cui vicende personali preferisco non aggiungere nulla a quello che già ho raccontato nel
testo. Questa la scelgo anche per i cori di Cosimo che quando l’abbiamo fatta live in un momento di estasi mi sembrava di essere a un concerto dei Fine Before You Came.
Avete parlato di voi, avete parlato di altri. Forse è un po’ presto, ma di cosa vorranno raccontare gli ZiDima in futuro? Auguriamoci di raccontare e di vivere momenti di totale serenità. Dopo tutto credo sia questo il fine che segue ogni persona, anche perché l’odio e la rabbia richiedono un tale sforzo e consumo di energie che bisogna stare attenti a non sprecarli, specie verso chi non si merita proprio nulla. Poi chissà, magari tra 5 anni saremo ancora più incattiviti di oggi e faremo un disco black metal.
Le sonorità e i testi di questo progetto sono molto maturi. Siete riusciti a dare forma a storie molto vicine all’ascoltatore, come se fosse quotidianità. Allo stesso tempo avete “sperimentato” con i suoni, esplorando nuove aree rispetto ai lavori precedenti. Buona Sopravvivenza è stato un disco che ho amato profondamente. In cosa vi sentite diversi, musicalmente e personalmente, da quell’album? Sì anche nelle prime recensioni è venuto fuori questo aspetto, che ci si identifica con facilità in queste storie. A noi fa ovviamente piacere, vuol dire che è stata capita la nostra intenzione di raccontare vicende reali, quotidiane, in cui emergono difficoltà che ognuno può avere affrontato nella propria vita. Anche se poi si tenta sempre di nascondere le criticità, le piccole e grandi tragedie in cui tutti incappiamo. Per quanto riguarda i testi ho cercato di evitare troppi riferimenti personali. Rispetto a Buona Sopravvivenza questo è un disco decisamente meno autobiografico. E il lavoro sui suoni e sugli arrangiamenti è stato più lungo e ricercato. Anche se le canzoni nascono sempre da improvvisazioni che poi sviluppiamo insieme, già nelle prime fasi abbiamo cercato percorsi diversi o comunque meno prevedibili per arrivare a quei momenti di esplosione che da sempre caratterizzano la nostra musica. Ci sono parti più articolate, con stacchi e soluzioni che il mio amico Paolo ha definito “anche un po’ azzardati”. Soprattutto ci sono i cori urlati che Cosimo fa sempre durante i concerti, in maniera più istintiva che ragionata, e che abbiamo voluto assolutamente inserire nelle registrazioni. Perché volevamo che il disco suonasse come un nostro live, con tutta l’enfasi, l’emotività e la drammaticità che emerge quando siamo su un palco. Poi c’è il capitolo collaborazioni. In Chiara ci sono i cori di Ale dei Selva che era passato per caso in studio mentre stavamo registrando, e che abbiamo coinvolto immediatamente, lì sul posto, e il violino di Raffaele Terlizzi, che è stato agganciato da Franq e che si è rivelato una graditissima sorpresa. In Roby pensavamo da subito che ci sarebbe stata bene una tromba, e anche qui Emidio Bernardone ci ha regalato una parte davvero suggestiva. Le parti di synth le ha suonate Franq, come ogni tanto avveniva in sala prove. C’è quindi stato tutto un discorso più mirato su arrangiamenti e decorazioni dei pezzi che invece era totalmente assente nel disco precedente: Buona Sopravvivenza aveva addosso un’urgenza scalpitante, è molto più diretto, crudo direi.
Questa ricerca dei suoni è avvenuta in maniera naturale o avete intenzionalmente ricercato le sonorità presenti nel disco? Qui lascio la risposta a Franq, che nella vita oltre ad essere il batterista di ZiDima fa il fonico, e si è occupato di curare l’editing e il mixaggio degli ultimi 2 dischi (l’ultimo insieme a Fabio Intraina del Trai Studio di Inzago). Io ti posso solo dire che a livello di sonorità generale abbiamo preferito tenere un po’ più dentro la voce per dare maggiore risalto alle chitarre, che suonano sfacciate e prepotenti, assolutamente in primo piano, come non si sentiva da un po’ di tempo. Franq: Riguardo alle sonorità dell’ultimo album, non credo ci siamo scostati molto dal precedente, ma ci sono state alcune novità. Il trio batteria basso e chitarra rimane una costante, anche se in questo lavoro abbiamo cercato di estremizzare e creare maggiore differenza tra i momenti di quiete e le parti più “furiose”, è stata una precisa volontà
condivisa. La struttura dei brani è in media più complessa se paragonata all’album precedente, ma questa è stato un risvolto non ponderato, una naturale evoluzione che riprende per certi versi la strada aperta dal brano Buona Sopravvivenza, ultima traccia del precedente lavoro. Il desiderio di inserire degli strumenti diversi dal trio di base è nato quando i brani hanno preso una forma e una struttura più definita. Sono scaturite quindi le parti di synth che troviamo in alcune tracce e i contributi decisivi di Emidio Bernardone alla tromba su Roby e di Raffaele Terlizzi al violino su Chiara. Insieme a loro dobbiamo ringraziare anche Fabio Intraina per il fondamentale apporto in fase di registrazione e di mix.
Prima dell’uscita del disco avete pubblicato un video bellissimo. Ne avete altri in programma? Siamo così innamorati del video di Vale (ideato, interpretato e realizzato con i ragazzi e le ragazze del Foa Boccaccio) che oggi non pensiamo ad altri possibili video. Con questo videoclip volevamo ringraziare e celebrare a dovere questi meravigliosi combattenti moderni che ci hanno accolto come band e soprattutto come persone circa 10 anni fa e che oggi si battono di fronte a una nuova minaccia di sgombero. Mi porto dietro solo ricordi preziosi legati al Boccaccio e a quelle 3 notti di luglio in cui sono state girate le diverse parti, con una trentina di persone coinvolte, da chi tagliava la legna per i bracieri, alle comparse, ai performer, ai truccatori, a chi aiutava durante le riprese con un megafono, a chi spingeva un carrello o teneva in mano un faro. Ancora mi emoziono se penso a questa clamorosa testimonianza di affetto che ci è arrivata addosso. Poi Paolo (il regista, che ha concepito il video centrando perfettamente le tematiche del brano) ha fatto un lavoro incredibile sia per la qualità delle riprese che in fase di montaggio. Per tutti noi è stata un’esperienza veramente intensa e avremo sempre un’enorme riconoscenza verso questi ragazzi.
Il periodo che stiamo vivendo è duro per molti settori, musica compresa. Tra le misure di sicurezza e la velocità con cui si ascoltano e scoprono nuove band, come vedi il futuro della scena musicale indipendente? Sulla criticità del momento come ti dicevo prima siamo tutti molto preoccupati. Ma la nostra preoccupazione come band è niente in confronto al dramma di chi ha perso un posto di lavoro o peggio un amico o un familiare. Cerchiamo ovviamente di vedere come evolverà la situazione, se ci saranno o meno opportunità per fare altri concerti, e in che modo. Ci adegueremo senza problemi a suonare davanti a un pubblico limitato o mascherato, in orari magari insoliti. Vediamo. Sul futuro della cosiddetta scena indipendente non saprei davvero cosa rispondere. C’è stato questo clamore indotto dalle major verso pseudo cantastorie ruffiani e poppeggianti che a mio giudizio non hanno nulla da dire né da spartire con quella che una volta era definita “la scena indie” in Italia. Per il resto noi continuiamo a trovarci da favola in questi contesti punk/hardcore/diy in cui ci siamo ritrovati con il tour precedente. Lì abbiamo trovato tantissima curiosità, attenzione e sincero calore verso la nostra proposta, che forse non è nemmeno così tanto “estrema”. Anche se ricordo un paio di pogate con i minorenni con le creste durante i nostri live che sono una delle cose più divertenti fatte nella mia vita. Quindi al di là delle definizioni di genere e degli steccati, ognuno si faccia male come preferisce. Io le nuove band le continuo a scoprire dal vivo, ai concerti nei centri sociali e nei piccoli club, non grazie a una diretta Instagram o a 18 videoclip con tette e culi di fuori su YouTube. Però mi piace Salmo, volevo scriverlo per non sembrare troppo
passatista.
Molte realtà indipendenti hanno contribuito alla realizzazione del vostro progetto. Mi capita, purtroppo, di vederne sempre meno. Che succederà a questi tesori del mondo musicale? Con questo album siamo riusciti a coinvolgere 8 etichette: a partire da I Dischi del Minollo (da Pescara) e NelMioNome (da Milano) che si erano occupati già del disco precedente, poi Gasterecords (da Brescia) che ci puntava da tempo ed è stata la prima a cui abbiamo inviato i brani mixati, e Brigante Records che ci aveva chiamato per un concerto nel cuneese. Poi altre 4 etichette che non conoscevamo direttamente ma che per affinità abbiamo contattato per capire se erano interessate alla coproduzione della stampa in vinile: le siciliane Fresh Outbreak Records e Boned Factory, In Circle Records (da Verona), True Bypass (dalla Calabria). Sono tutte piccole e cocciute realtà, portate avanti con grande passione nonostante mille difficoltà, che hanno dato un contributo prezioso non solo a livello economico ma soprattutto umano. Con molti di loro stiamo diventando amici, e speriamo ci sia la possibilità di ritrovarsi tutti vicini a un palco. In ogni caso seguendo i loro consigli abbiamo deciso di dedicare maggiore attenzione alla fase della promozione, mantenendo comunque sempre la massima libertà nelle scelte. Ne è venuto fuori un bel lavoro di gruppo, e i risultati iniziano a vedersi, il disco sta girando bene. Ma la cosa più importante è che, come successo in passato, grazie alle etichette poi nascono festival, serate, incroci con altre band di cui spesso ci innamoriamo.
Ma alla fine riusciremo ad abbracciarci un giorno? Sicuramente Yuri. Ci eravamo incrociati grazie a una tua bellissima recensione di Buona Sopravvivenza, in cui avevi scritto addirittura che “Ogni canzone è un punto di sutura”. Wow, lo ricordo sempre come il complimento più bello che abbiamo mai ricevuto. Non ricordo neanche se eravamo stati noi a cercarti e in che modo ti fosse arrivata la nostra musica. In ogni caso grazie per aver soddisfatto il mio ego con quelle tue parole quella volta e adesso con questa infinita intervista. Ci si trova sicuramente in futuro.
Gli ZiDima sono:
Roberto Magnaghi: chitarre
Manuel Cristiano Rastaldi: voce e parole
Cosimo Porcino: basso, cori
Francesco Borrelli: batteria, synth
Del nostro abbraccio ostinato in questa crepa in fondo al mare è stato stampato con il contributo di:
Boned Factory
Brigante Records
Fresh Outbreak Records
Gasterecords
I Dischi del Minollo
In Circle Records
Nel Mio Nome Dischi
TrueBypass
Seguite gli ZiDima e la loro musica sul loro profilo Bandcamp. Comprate il disco, supportate il futuro di questa bellissima creatura e di tutte le realtà che hanno partecipato. Ascoltate anche i loro dischi precedenti, ne rimarrete incantati.
Ci sarà un lungo abbraccio alla fine di questa tempesta. E sarà in un parco o in mezzo alla strada, di fronte a un cinema o in qualche angolo sotto un palco. Aspetteremo quel momento e sarà il nostro nuovo inizio.